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Per dare attuazione al "diritto all'oblio", le Autorità italiane - e cioè il Garante per la privacy ed anche i giudici - possono ordinare, in conformità al diritto Ue, al gestore di un motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione globale: il cd. global delisting o global removal. Un repulisti esteso dunque anche ai Paese extra europei, andando a incidere sulle versioni del motore al di fuori dell'Ue. La decisione dovrà essere presa all'esito di un bilanciamento tra il diritto della persona alla tutela della sua vita privata e alla protezione dei dati personali e il diritto alla libertà d'informazione, tuttavia - e questo è un altro passaggio decisivo - tale valutazione va fatta "secondo gli standard di protezione dell'ordinamento italiano", senza dunque badare alle regole vigenti nei paesi esteri.

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Il gestore di un sito web non è tenuto a provvedere, a seconda dei casi, alla cancellazione, alla deindicizzazione o all’aggiornamento di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, anche se relativo a fatti risalenti nel tempo, se non c’è un’esplicita richiesta. Solo su domanda dell’interessato scatta per il gestore l’obbligo di provvedere «senza indugio». La Cassazione respinge la pretesa del ricorrente di essere risarcito dall’Agenzia di stampa Adnkronos, per aver violato il suo diritto all’oblio, lasciando sul sito la notizia del suo arresto per reati di droga. Informazione che la fidanzata aveva trovato consultando il motore di ricerca Google.

Se siete donne e iniziate a ricevere telefonate da parte di uomini interessati a ricevere prestazioni sessuali, qualcuno potrebbe avervi tirato un brutto scherzo, pubblicando a vostra insaputa il vostro numero di telefono in qualche sito di incontri piccanti su Internet. Questo è in pratica quello che è realmente accaduto ad una signora siciliana, il cui cellulare era stato iscritto da una conoscente in una chat erotica, associando ad esso due nicknames ed invitando i frequentatori della community a luci rosse a contattare l’ignara titolare dell'utenza per riceverne prestazioni sessuali. Che si fosse trattato di un gioco di cattivo gusto, o di qualche vendetta personale, fatto sta che tutto ciò è costato caro all'autrice del gesto.

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Pubblicare le foto altrui su Facebook senza consenso è una violazione dei diritti alla riservatezza e all'immagine della persona e va condannato non solo l'abuso ma anche il ritardo nel procedere alla cancellazione delle immagini. È quanto ha disposto il tribunale di Bari accogliendo il ricorso di un uomo che chiedeva venissero rimosse le foto sue e dei suoi figli dal profilo Facebook della propria ex.

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La sentenza è per sua natura atto che può circolare solo in copia, restando l'originale allegato a raccolta. Ne discende che la trasmissione della stessa, accompagnata dalla prospettazione di conformità all'originale in conseguenza della simulata celebrazione del giudizio, si manifesta idonea a ledere il pubblico affidamento. È irrilevante la circostanza di fatto legata alla materiale esistenza o meno dell'atto "originale" rispetto al quale dovrebbe operarsi il raffronto comparativo con la copia, perché l'attività falsificatoria effettuata con la modalità della contraffazione assume come riferimento non tanto la copia in sé, quanto il falso contenuto dichiarativo o di attestazione, apparentemente mostrato dalla copia formata ed esibita.

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Dopo il primo precedente in Italia del Tribunale meneghino del 2021 (Tribunale Milano sezione I, ordinanza 9 febbraio 2021), ecco una pronuncia del Tribunale felsineo (Tribunale di Bologna, ordinanza 25 novembre 2021 – Giud. Est. Neri), adottato lo scorso novembre 2021 in materia di trasmissione e successione dei dati digitali agli eredi del de cuius e che si aggiunge ad altre decisioni, emesse da tribunali di altri paesi, dando così la misura della rilevanza che il fenomeno dell'eredità digitale sta assumento negli ultimi anni.

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I social network hanno rivitalizzato il reato di sostituzione di persona, nato per punire condotte ben lontane dal mondo del digitale. Il reato, previsto dall’articolo 494 del Codice penale, ha dato luogo nel passato a una curiosa giurisprudenza che configurava l’illecito in tutti i casi di matrimoni per procura in cui uno dei due coniugi mentiva sul proprio status sociale o addirittura sulla propria identità.

Non basta il consenso di un solo genitore per autorizzare la pubblicazione online delle foto dei figli minorenni. Questo vale anche se marito e moglie sono separati e se i figli sono in regime di affido condiviso. Ma se mamma o papà assistono all’evento che poi finisce postato sui social non possono ottenere il risarcimento del danno: perché, essendo presenti, avrebbero potuto intervenire per tutelare i figli.

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Va bloccata in via d’urgenza la pubblicazione delle recensioni di libri, richiesta a pagamento dal loro editore, quando l’incaricato della promozione abbia usato sui social espressioni offensive e sessiste. Infatti, in questo caso esiste il rischio, per l’editore e gli autori dei libri da recensire, di un discredito per il fatto che la loro immagine sia associata a quella del promotore. Lo afferma il Tribunale di Bologna (giudice Antonio Costanzo) in un’ordinanza del 12 marzo 2021.

Se non prova la responsabilità del cliente, per dolo o imprudenza, è la banca a rispondere degli ammanchi causati da violazioni del sistema informatico. Rientra nel rischio professionale di chi gestisce i servizi di pagamento, infatti, adottare tutte le cautele possibili per evitare l’uso illecito dei codici di accesso da parte di terzi. Lo sottolinea la Corte d’appello di Firenze con la sentenza 1945 dell’8 settembre 2022.

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Caffè Privacy: i diritti dell'interessato

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