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Una sanzione di 120mila euro è stata irrogata dal Garante privacy a una concessionaria per aver violato i dati personali dei dipendenti attraverso l’utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro.

L'evoluzione degli strumenti tecnologici – in particolare l'introduzione di meccanismi fondati sull'impiego di dati biometrici – ha determinato la necessità di ricalibrare i criteri di liceità del trattamento alla luce del principio di proporzionalità riguardo gli strumenti di rilevazione automatizzata delle presenze del personale.

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L’Università di Cassino è stato multata dal per non aver disattivato in tempi rapidi la casella di posta elettronica di un docente a contratto dopo la fine del suo incarico, e per non aver risposto correttamente alle sue richieste di accesso e cancellazione dei dati, nonché per aver mantenuto online documenti contenenti informazioni personali oltre i limiti di legge.

Il rispetto della procedura di garanzia prevista dallo Statuto dei lavoratori e dal Codice privacy costituisce un requisito essenziale per la correttezza dei trattamenti dei dati personali dei lavoratori in azienda. Non sono bastate le motivazioni presentate da un’azienda per evitare una sanzione di 20mila euro dal Garante per la protezione dei dati personali per aver installato un sistema di allarme la cui attivazione e disattivazione si basava sull’uso delle impronte digitali, un impianto di videosorveglianza e un applicativo per la geolocalizzazione di alcuni lavoratori.

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Il cassiere che ruba è inchiodato al licenziamento dalle immagini della telecamera a circuito chiuso. E ciò perché l'impianto di controllo è installato dopo l'accordo coi sindacati per la tutela del patrimonio aziendale, il che rende utilizzabili contro il lavoratore i video registrati dal sistema di sorveglianza. Così la Corte di cassazione civile, sez. lavoro, nell'ordinanza n. 23985 del 06/09/2024.

Con la sentenza 40295/2024, la Cassazione si è pronunciata chiarendo l’ambito di applicazione del reato di “accesso abusivo ad un sistema informatico” all’interno di un rapporto di lavoro, nella fattispecie in cui un respnsabile si era fatto dare da un’impiegata a lui gerarchicamente subordinata le credenziali di accesso al sistema informatico aziendale.

La stretta della giurisprudenza attorno ai lavoratori che fanno un uso improprio dei permessi per assistere i familiari disabili si conferma sempre più severa.  Con l'ordinanza n. 4670/2019, depositata lo scorso 18 febbraio, infatti, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi con decisione sul licenziamento del dipendente che invece di impiegare le ore di permesso “104” nell'assistenza del familiare le dedichi invece ad attività personali, confermando come una simile condotta sia idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario indispensabile alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Il computer è uno strumento di lavoro e, per suo tramite, è potenzialmente possibile monitorare la prestazione lavorativa. Per tale ragione, le tutele previste dallo statuto dei lavoratori, si estendono anche allo strumento di lavoro. Ciò significa che qualora il datore di lavoro intenda monitorare le attività eseguite sul pc, dovrà quindi informare il dipendente di tale eventualità.

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Alla luce delle modifiche apportate dal Dl 87/2018 al Testo unico dei contratti (Dlgs 81/2015), il contratto a termine può avere una durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: 

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L’autorizzazione per videosorveglianza sul luogo di lavoro, così come stabilito dall’articolo 4 della legge 300/1970, consiste in un passaggio obbligatorio per tutti i datori di lavoro che decidono di installare impianti audiovisivi e altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti.

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Privacy Day Forum 2025: il trailer della giornata

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