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Ai fini della diffamazione a mezzo mail – dunque con invio a più destinatari – è sufficiente la mera conoscibilità della comunicazione mediale, non essendo dirimente che la mail sia stata effettivamente 'aperta', risultando invece necessario che sia stata scaricata dal sistema. Lo ribadisce la Cassazione con la sentenza n. 12511 depositata il 24 marzo 2023.

Venerdì, 07 Giugno 2019 07:00

Diffamazione su Facebook, Corte Ue in panne

Facebook potrebbe essere costretta a individuare tutte le informazioni «identiche» a un commento diffamatorio di cui sia stata accertata l’illiceità, e anche «equivalenti» se provenienti dallo stesso utente, e a rimuoverle. Lo afferma l’avvocato generale Maciej Szpunar nelle conclusioni presentate alla causa C-18/18. Il condizionale è d’obbligo, dato che il diritto dell’Unione non disciplina la questione.

Scatta il reato di diffamazione per chi pubblica sul proprio profilo Facebook, e su di una pagina del social: "Il quotidiano di…", un testo che attribuisce ad una persona specifica, identificata per nome e cognome, il danneggiamento della propria moto qualificandola come "schizofrenica certificata". Né per togliersi dai guai è sufficiente appellarsi ad un furto di identità disconoscendo l'account. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39805/2022, respingendo il ricorso di un uomo condannato nel 2021 dalla Corte di appello di Caltanissetta.

Nel caso di mail a contenuto diffamatorio, il reato si consuma con il "recapito" della missiva elettronica presso il computer del destinatario. È in quel momento, dunque, che si radica anche la competenza a giudicare. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38144/2023.

Per il reato di diffamazione a mezzo social network, commesso da più imputati con residenza in luoghi diversi e collocati in circondari diversi, la competenza per territorio appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che per primo ha iscritto la notizia di reato. Ad affermare questo principio è la sentenza 7377/2023 della quinta sezione della Cassazione.

In tema di diffamazione sui social la Cassazione ha chiarito che la valutazione sull’offensività delle espressioni veicolate in rete deve fondarsi su un accertamento rigoroso della loro effettiva portata denigratoria, alla luce del significato letterale delle parole, del contesto comunicativo e della loro capacità di offendere l’altrui reputazione secondo un metro oggettivo.

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La trasparenza consiste nella pubblicità di atti, documenti, informazioni e dati propri di ogni amministrazione, resa oggi più semplice e ampia dalla circolazione delle informazioni sulla rete internet a partire dalla loro pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni. Lo scopo è quello di favorire forme diffuse di controllo sull’azione amministrativa, sull’utilizzo delle risorse pubbliche e sulle modalità con le quali le pubbliche amministrazioni agiscono per raggiungere i propri obiettivi. (Vedi sezione Faq sul sito istituzionale dell’Autorità Garante).

Commette il reato di diffamazione aggravata, ex articolo 595 comma 3 cod. pen., la persona che, attraverso la pubblicazione di un post su Facebook, accusa l'ex partner, in maniera non del tutto corrispondente alla realtà, di far mancare al proprio figlio i mezzi di sussistenza, facendolo così apparire a un numero indeterminato di potenziali utenti del social network come una persona incurante della vita del minore. Ad affermarlo è il Tribunale di Campobasso con la sentenza n. 574/2019.

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Diffamazione per il medico che diffonde una email arrivatagli dalla madre sui metodi inumani ( in particolare sui medicinali somministrati al giovane) operati sul figlio nel reparto di psichiatria. Il medico aveva eccepito l'eccessiva genericità delle imputazioni a suo carico e per questo aveva invocato l'applicazione della particolare tenuità del fatto prevista dall'articolo 131-bis del codice penale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 2705/20.

L’uso del condizionale non è sufficiente a escludere l’idoneità della “Fake News” a ledere la reputazione altrui. Lo chiarisce la Cassazione. Espressioni insinuanti o capziose possono indurre il lettore, anche in relazione all’indiscutibile portata suggestiva delle specifiche notizie riportate, a ritenere la effettiva rispondenza a verità dei fatti raccontati.

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Il presidente di Federprivacy al TG1 Rai

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