Carcere per chi commette stalking attraverso post pubblici su Facebook
Non resta impunito chi molesta e offende su Facebook. Per tali condotte, infatti, il rischio è la condanna per il reato di stalking. Lo ha chiarito la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 45141/2019, confermando la condanna a dieci mesi di reclusione per il reato di atti persecutori nei confronti di un uomo che reiteratamente aveva offeso, molestato e minacciato una donna, i suoi familiari e persone a lei vicine, attraverso post pubblici su Facebook.
I fatti - L'imputato adiva la Cassazione lamentando erronea applicazione dell'art. 612-bis c.p. "con specifico riferimento all'insussistenza degli eventi di danno previsti dalla norma" e per mancanza di motivazione.
La sentenza, inoltre, a suo dire, era viziata nella parte in cui concludeva per la sussistenza del grave e perdurante stato d'ansia e del cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa, non considerando le numerosissime conversazioni intrattenute tra la vittima e l'imputato (a fronte di un'unica procedura di "banning" volta a impedire ogni interferenza con i suoi profili Facebook) e la concessione, da parte della donna, del proprio numero di telefono.
La decisione - Gli Ermellini sono di diverso avviso e sottolineano che le censure sono inammissibili, poiché richiedono di fatto una rilettura dei fatti non consentita in sede di legittimità.
Nel merito, correttamente comunque, secondo il Palazzaccio, la corte territoriale ha ricondotto i fatti contestati nella fattispecie dello stalking, stanti le continue molestie operate nei confronti della vittima, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network e il numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della stessa.
Altrettanto correttamente, la corte ha dato conto della sussistenza degli eventi di danno previsti dall'art. 612 bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell'imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale in cui lo stesso ha posto in essere i comportamenti persecutori che hanno impedito alla vittima di svolgere una vita normale, "insinuando la paura che nelle ore di relax all'improvviso si materializzasse l'imputato" e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo all'aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, installando blocchi delle chiamate e dovendo giustificare le intrusioni diffamatorie dell'uomo sui social anche in ambito lavorativo.
Stalking reato abituale - Lo stalking, ricordano, quindi i giudici di piazza Cavour, "è strutturalmente una fattispecie di reato abituale - in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di ‘condotte reiterate', omogenee od eterogenee tra loro, con cui l'autore minaccia o molesta la vittima - ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari: a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita (cfr. Cass. n. 39519/2012). "
Lo stato d'ansia e tensione della vittima, che nella vicenda è emerso con evidenza, inoltre, "prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza". In particolare, è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori "abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima", considerato che la fattispecie incriminatrice di cuiall'art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Cass. n. 18646/2017).
Irrilevante l'avvicinamento della vittima - Non regge neanche la contestazione sui momenti di avvicinamento della vittima all'imputato. Più volte è stato evidenziato, rammenta infatti la S.C., dichiarando inammissibile il ricorso, che "l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (Cass. n. 5313/2014), atteso che l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell'analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Cass. n. 31309/2015)".
Fonte: Il Sole 24 Ore del 6 gennaio 2020