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Chiusa pagina Facebook con oltre 30mila iscritti in cui gli uomini postavano le foto intime delle proprie mogli a loro insaputa

Foto di donne in costume da bagno, mentre cucinano in cucina o si rilassano sul divano, immortalate di nascosto e poi condivise senza il loro consenso. Non in un cassetto segreto o in qualche archivio privato, ma alla luce del sole su Facebook, in uno spazio pubblico che raccoglieva decine di migliaia di iscritti.

È questa la storia che ha richiamato l'attenzione delle notizie di cronaca sul gruppo “Mia Moglie”, chiuso da Meta dopo un’ondata di segnalazioni da parte di utenti indignati. La motivazione ufficiale fornita dalla società di Mark Zuckerberg è chiara: “Violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti”.

Il gruppo contava oltre 30 mila iscritti, per la quasi totalità uomini, che si scambiavano foto intime delle proprie mogli — o presunte tali — all’insaputa delle dirette interessate, e ovviamente senza il loro consenso.

Un archivio costruito sulla violazione della fiducia, trasformato in palcoscenico per approvazione e complicità maschile. Una vicenda che assume contorni ancora più inquietanti se letta nel contesto delle ultime settimane, quando altre violazioni della privacy hanno conquistato le cronache, come la pubblicazione online delle immagini private sottratte a un sistema di videosorveglianza che ritraevano il conduttore Stefano De Martino e la compagna.

Il faro sul gruppo Mia Moglie si è acceso grazie a “No justice no peace”, un’organizzazione no profit che sul proprio profilo Instagram aveva lanciato la denuncia più netta: “Oltre 32.000 uomini hanno creato un gruppo Facebook dove condividono foto intime delle proprie mogli senza il loro consenso, cercando approvazione e complicità in questa violenza”. Da qui l’appello: segnalare il gruppo a Meta, in massa, fino a costringere la piattaforma a intervenire.

La pagina Mia Moglie è stata così inondata di commenti indignati, accuse di pornografia non consensuale, violazione della privacy, richieste di chiusura immediata. “Questa è una palese forma di abuso, pornografia non consensuale e misoginia sistemica. Chi partecipa a questo scempio è complice di un crimine” ha scritto ancora l’associazione, mentre altri utenti dichiaravano di aver già sporto denuncia alla Polizia Postale.

Di fronte alle pressioni, Meta ha infine spento l’interruttore al gruppo: “Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme. Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare gruppi e account e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine”, ha dichiarato un portavoce.

Una piccola vittoria, che però lascia l’amaro in bocca. Perché, come spesso accade nel mondo digitale, chiudere una porta significa vederne aprire subito un’altra. Sul profilo di No justice no peace, numerose segnalazioni raccontano infatti della nascita di un nuovo gruppo “di riserva” e persino dell’apertura di un canale Telegram parallelo, già finito sotto la lente della Polizia Postale. Un segnale che la battaglia non è finita: anzi, è appena iniziata.

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