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Cassazione, il manager fallito non può invocare il diritto all'oblio

L'informazione di essere stato amministratore di una società fallita non si può cancellare, invocando la legislazione sulla privacy, anche se è una notizia negativa per la reputazione. Non cala l'oblio sul registro delle imprese tenuto dalle camere di commercio. È la Cassazione, sezione prima, a dirlo, con un'ordinanza adottata dopo avere interessato la Corte di giustizia Ue, per avere la corretta interpretazione della normativa italiana rispetto alla disciplina europea sul trattamento dei dati personali.

La Cassazione ha rilevato che l'iscrizione degli eventi nel registro delle imprese è dovuta, e che nel caso specifico (notizia di essere stato amministratore di una società fallita) non sussistevano i presupposti per la loro cancellazione, poiché l'iscrizione è avvenuta rispettando le condizioni previste dalla legge. Inoltre il dato in questione era esatto e rappresentava l'adempimento di uno specifico dovere d'ufficio del conservatore del registro. La Cassazione, che aveva portato la questione al vaglio della corte di giustizia della Ue, ha recepito la sentenza dei giudici europei del 9 marzo 2017, resa nella causa C. 398/15.

La vicenda specifica ha interessato l'amministratore di una società costruttrice di un complesso turistico in Italia. A detta dell'interessato le case non si vendevano perché i possibili acquirenti non si fidavano di lui, poiché a conoscenza del fatto che dal registro delle imprese risultava la sua passata qualità di amministratore di un'altra società decotta. L'imprenditore ha fatto causa alla camera di commercio per la diffusione di quella informazione, vincendo in primo grado. La camera di commercio è stata condannata ad anonimizzare i dati e a risarcire i danni (appena 2 mila euro).

Diritto oblio

La Cassazione, nel successivo grado di giudizio, ha rinviato la questione alla Corte di giustizia Ue, chiedendo se la direttiva europea sulla privacy (95/46) e la direttiva sulla pubblicità degli atti delle società (668/151) prevedano un diritto all'oblio sui dati relativi alle persone fisiche contenuti nel registro delle imprese.

La Corte di giustizia ha risposto che non c'è diritto all'oblio. Questo perché il sistema della pubblicità camerale risponde a un'esigenza di certezza nelle relazioni tra le società e i terzi e soprattutto a tutelare gli interessi rispetto alle società di capitali. L'interesse pubblico a scambi economici in un quadro di sicurezza giuridica è superiore a quello individuale alla privacy.

Questo interesse alla pubblicità delle notizie negative sulla affidabilità economica di una persona si mantiene nel tempo, anche quando una società cessa di esistere e possono ancora sorgere questioni, per cui è necessario avere a disposizione i dati delle persone fisiche contenuti nel registro delle imprese. Quindi, secondo la Corte di giustizia, e ora anche secondo la Cassazione, risulta impossibile identificare un termine unico e fisso oltrepassato il quale i dati sono da cancellare.

E ancora più chiaramente la Corte Ue ha affermato che gli stati non sono tenuti a garantire alle persone fisiche, il diritto di ottenere, decorso un certo periodo di tempo dallo scioglimento della società, la cancellazione dei dati personali che le riguardano. Tra l'altro le cose, si legge in un passaggio dell'ordinanza della cassazione, non cambieranno neppure con il regolamento europeo sulla privacy (2016/679) operativo dal 25 maggio 2018: l'articolo 17, sul diritto all'oblio, esclude l'applicazione di questo diritto ai trattamenti effettuati per un obbligo di legge.

La decisione della cassazione è estensibile a tutti i pubblici registri (per esempio quelli dell'Agenzia del territorio, con dati catastali e ipotecari). In materia va ricordato, tuttavia, che nella parte finale della sentenza europea, la Corte di giustizia ha attenuato la sua decisione: nulla toglie, si legge nella pronuncia dei giudici di Lussemburgo, che, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società, in via eccezionale, e caso per caso, l'accesso ai dati personali sia limitato ai soli terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione. Attenzione, dunque, a ritenere assolutamente inderogabile il portato della decisione.

A questo proposito, c'è un altro tema rilevante, anche se minimizzato dalla ordinanza del 9 agosto 2017. La Cassazione non ha considerato rilevante il fatto che l'abbinamento del nome dell'interessato alla società fallita sia avvenuto non attraverso la consultazione del registro delle imprese, ma da un dossier di una società specializzata in informazioni commerciali, che ha preso il dato dal registro delle imprese. Proprio in materia di informazioni commerciali, il garante della privacy è intervenuto con il provvedimento n. 479 del 17 settembre 2015 (Codice di deontologia del settore), che all'articolo 7, comma 4, lettere a) e b), prevede limiti di tempo alla conservazione di informazioni negative: 10 anni dopo la chiusura del fallimento e sempre 10 anni dopo trascrizione o iscrizione di atti pregiudizievoli e ipocatastali (ipoteche e pignoramenti).

Quindi non sarebbe la stessa cosa prendere i dati dall'ente pubblico (camera di commercio) o da una relazione di una società privata di informazioni. E si può sostenere (in base al considerando 41 del regolamento Ue 2016/679) la compatibilità con la legislazione europea del citato provvedimento del garante.

Fonte: Italia Oggi del 24 agosto 2017 - Articolo a cura di Antonio Ciccia Messina

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