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Diffamazione online anche senza nome e cognome se la persona è comunque identificabile

E’ ormai noto come l'apertura al pubblico dell'ampio e diffuso utilizzo di Internet abbia determinato la comparsa e lo sviluppo crescente di nuovi reati, che si manifestano sia come reati informatici «in senso stretto» (vale a dire che già a livello normativo contemplano, fra gli elementi costitutivi dell’illecito, l'utilizzo di tecnologie), sia come reati informatici «in senso ampio» ed, in specie, come reati «cibernetici». La Sentenza della Cassazione Penale n. 4025/2019, è tornata ad occuparsi di quest’ultima categoria di illeciti: nello specifico minaccia e diffamazione a mezzo “Facebook”. 

Il Supremo Collegio veniva chiamato a valutare la legittimità della sentenza emessa dalla Corte di Appello d Ancona, che aveva confermato la pronuncia di primo grado del Tribunale di Pesaro con la quale veniva condannato (omissis) per i reati di diffamazione e minaccia.

Questa la vicenda.: (omissis) postava su “FacebooK” una serie di frasi ritenute offensive rivolte ad un agente della polizia Mlunicipale, senza che ne fosse indicato il nominativo, impegnato, insieme ad altri colleghi, in un’attività di accertamento di un’infrazione a proprio carico.

Il giudice di appello, nel confermare la sentenza del Tribunale, evidenziava come nei testi pubblicati dall’imputato sul social network risultasse con chiarezza descritta la vicenda (ovvero la contravvenzione elevata dai Vigili Urbani) e identificabile sia l’episodio, sia, con sicurezza la persona offesa in quanto unico componente di sesso maschile della pattuglia.

Pertanto, nonostante la mancata identificazione nominativo della persona offesa, la presenza degli altri elementi quali la narrazione dell’episodio, la specificità della vicenda, la pubblicazione di commenti sul social network accessibile ad una pluralità di persone, aveva comportato l’esatta conoscibilità, ai soggetti in grado di risalire a quegli elementi, dell’identità della persona offesa.

L’imputato ricorreva in Cassazione eccependo, con riguardo all’imputazione di diffamazione, un vizio di motivazione in ordine all’individuabilità del soggetto passivo del reato mentre, con riferimento al reato di minacce, veniva sollevata la totale mancanza di motivazione.

La Corte di Cassazione accoglieva solo parzialmente il ricorso ritenendo che il giudice di secondo grado non avesse fatto buon governo del principio di diritto che vuole integrata la fattispecie della diffamazione solo allorquando, seppur non individuato con il nome e cognome, la persona offesa possa ritenersi inequivocabilmente individuabile mediante il ricorso a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuiti ad un determinato soggetto.

Nel caso di specie gli Ermellini hanno escluso che la vicenda relativa alla multa irrogata avesse assunto i caratteri di notorietà tale da rendere identificabile l’identità del soggetto offeso da parte di chiunque avesse letto il testo pubblicato.

Veniva invece confermata la condanna per il reato di minaccia, avendo la Corte di Appello motivato sul punto unitamente al reato di diffamazione, precisando che per la sua sussistenza non occorre che l’espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altre persone.

Come osservato, le aule dei Tribunali sono sempre più interessate dai reati cibernetici.  In giurisprudenza è oramai pacificamente condiviso che i social network rappresentino mezzi idonei per realizzare la pubblicizzazione e la circolazione, tra un numero indeterminato di soggetti, di commenti, opinioni e informazioni, che, ove offensivi, comportano l’integrazione del reato di diffamazione, aggravata dall’utilizzo di un mezzo di pubblicità.

Questo deve essere di impulso nel procedere, con passo serrato, verso un’adeguata sensiblizzazione all’utilizzo consapevole di tali strumenti in modo da farne un luogo di virtuoso scambio di idee, opinioni ed esperienze di vita, piuttosto che di “condivisione di reati” che rischiano di consumarsi in maniera esponenziale attraverso un susseguirsi di “commenti”, come la recente cronaca ci racconta riportando il caso di 78 persone, legati da un rapporto di amicizia con l’autore di un post, che, lasciatesi andare a considerazioni dal contenuto offensivo, risultano indagate per diffamazione.

Note Autore

Nicola Maria Viscanti Nicola Maria Viscanti

Avvocato esperto di privacy e protezione dei dati personali, Delegato Federprivacy provincia di Prato - Email: [email protected]

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