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Visualizza articoli per tag: Corte UE

Spazio anche alle Authority nazionali per contrastare l’invadenza dei social network nella gestione dei dati. Le conclusioni dell’avvocato generale della corte Ue nella causa C-645/19 vanno in questa direzione escludendo che possa essere la sola Autorità capofila per la protezione dei dati (quella del paese di stabilimento della società) a potere intervenire.

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La privacy batte la trasparenza societaria. I dati di coloro che detengono partecipazioni indirette, tramite società fiduciarie, sono coperti da riservatezza e gli altri soci non hanno il diritto incondizionato di conoscerli. È questo il principio applicato dalla Corte di giustizia dell’UE con la sentenza del 12 settembre 2024 resa nelle cause riunite C-17/22 e C-18/22.

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Sono parole di soddisfazione quelle espresse dal Garante europeo per la protezione dei dati (Edps) a seguito della sentenza nella causa C-311/18 del 16 luglio 2020 con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha invalidato il "Privacy Shield": "La Corte Ue ha confermato le critiche allo scudo dei dati Ue-Usa che avevamo espresso più volte”, ha affermato il Garante UE Wojciech Wiewi¢rowski.

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Con la sentenza di oggi la Corte chiarisce che le esigenze di sicurezza nazionale non legittimano, per sé sole, la conservazione indiscriminata, da parte dei fornitori dei servizi di comunicazione elettronica, dei dati di traffico, applicandosi anche in questo caso le garanzie e i principi in materia di protezione dei dati. Linea da tempo sostenuta dal Garante per la protezione dei dati personali.

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Il contrasto alla corruzione non giustifica la divulgazione online dei dati contenuti nella dichiarazione di interessi privati dei direttori degli enti che ricevono fondi pubblici. Informazioni che contengono anche i nomi di familiari e amici che svolgono attività in possibile conflitto.

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In data 22 giugno 2022 la Corte di Giustizia UE si è pronunciata nella causa C-534/20 sul rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale del Lavoro federale tedesco nella causa tra un Data Protection Officer e il suo datore di lavoro. La causa davanti al Tribunale del lavoro era sorta in conseguenza del fatto che in data 13 luglio 2018 la Società Leistritz aveva comunicato, con lettera al dipendente (LH) la cessazione a partire dal 18 agosto 2018 del rapporto di lavoro esistente con LH in qualità di DPO interno della Società stessa a seguito di una ristrutturazione interna in base alla quale “l’attività di consulente legale interno e il servizio di protezione dei dati doveva essere esternalizzato”.

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Il contrasto alle forme di discriminazione lavorativa fondate sull’orientamento sessuale non può rimanere confinato dentro il perimetro del lavoro subordinato, ma si estende anche a tutte le forme lavoro autonomo. Con l’affermazione di questo principio, la Corte di giustizia europea segna un momento fondamentale per la lotta contro ogni forma di discriminazione.

Il licenziamento di un dipendente pubblico per il solo fatto di avere messo «mi piace» su un post su Facebook è una violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo, in una sentenza depositata ieri, di condanna alla Turchia (ricorso n. 35786/19). Per la Corte, le autorità nazionali non possono disporre la cessazione dal rapporto di lavoro anche se il post contiene dure critiche nei confronti delle autorità e, nel valutare una sanzione al dipendente, devono considerare la differenza tra condivisione di un messaggio e semplice «mi piace» sul post, nonché la popolarità del profilo su Facebook.

In data 1° agosto 2022, la Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che tutti i dati in grado di rivelare informazioni sensibili di un individuo mediante un «trattamento intellettuale», come un confronto o una semplice deduzione, rientrano nel novero delle «categorie particolari» di dati personali ai sensi dell’art. 9 del GDPR, ovvero quelle informazioni che necessitano di particolari tutele come quelle che riguardano opinioni politiche, convinzioni religiose o filosofiche, la salute o l’orientamento sessuale della persona, e altri dati che rivestono particolare delicatezza per l’impatto che hanno sulla sfera privata di una persona.

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Il risarcimento del danno alla privacy non deve lievitare per il solo fatto che a ledere la privacy sia un professionista tenuto a rispettare le norme sull'obbligo di segreto professionale sui dati dei clienti (come un commercialista). È quanto affermato dalla terza sezione della Corte di giustizia dell'Unione Europea (Cgue) con la sentenza del 20/6/2024 resa nella causa n. C-590/22.

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Il presidente di Federprivacy a Rai Parlamento

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